Insularità e portualità come dialettica spaziale tra apertura e chiusura

12 Novembre, 2013

Tanto nell’ambito delle teorie geografiche classiche sviluppate tra XIX e XX secolo, quanto nella cultura (quantomeno europea) l’insularità è stata spesso considerata come un modello di segregazione spaziale, di isolamento, di perifericità (Mallart, 1997; Cavallo, 2002 e 2013; Scaramellini, 2012). L’idea dell’isola nell’immaginario collettivo – e nelle sue rappresentazioni – è sovente associata alla “chiusura” [1]: sia intesa come inaccessibilità fisica, sia come habitus degli isolani (è il tema del cosiddetto insularismo).

Del resto, lo spazio insulare, per sua natura caratterizzato dalla finitezza, si è prestato meglio di altri ad essere trasformato in luogo di reclusione (talvolta di auto-reclusione); e, simbolicamente, ha finito con il divenirne una metafora. Anche sotto il profilo psico-geografico, l’isola può generare vissuti di topofobia claustrofobica, trasformandosi in una prigione fisica e mentale (Cavallo, 2013). 

Pure dal punto di vista ecologico, le isole sono sinonimo di chiusura, intesa come evoluzione delle specie in condizioni di isolamento e in una limitata superficie territoriale. Non è un caso che la biogeografia abbia nelle isole uno dei suoi campi di applicazione privilegiati: si pensi ai fenomeni di speciazione e agli endemismi insulari. Peraltro, è anche a causa di queste dinamiche di segregazione spaziale degli organismi che gli ecosistemi insulari risultano particolarmente fragili.

Il porto, al contrario, è l’archetipo dell’apertura; la stessa etimologia del termine rimanda a questo marchio semantico. Il latino portus è, infatti, uno pseudo-participio passato parallelo al greco poreytòs, ovvero “che dà passaggio” [2]. Il porto è il valico, la soglia, il passo dal mare alla terra, vocazione rinnovata ma non tradita dal concetto contemporaneo di cluster marittimo-portuale, inteso come cerniera tra area marittima e area terrestre. Ogni porto trae dunque la propria stessa ragione d’essere dall’apertura e trasferisce questa apertura alle città di mare, pur con tutta la complessità e, non di rado, la conflittualità dei rapporti tra il tessuto insediativo urbano e le aree portuali (De Luca e Lingua, 2012).

Si tratta di un’apertura che può assumere un’accezione positiva, spesso declinata romanticamente dalla letteratura e dalle arti figurative: si pensi, ad esempio, al tema della commistione etnica tra marinai (e, in misura minore data l’esistenza di vere e proprie corporazioni, tra lavoratori portuali) e tra essi e la composita popolazione delle città portuali, nonché alle forme culturali ibride cui tutto ciò ha dato origine. Le musiche dei porti sono, in tal senso, un modello di apertura: caratterizzate da influenze geograficamente disparate ed eseguite con strumenti popolari facilmente trasportabili per mare, come le chitarre e le fisarmoniche. Su tutte, il tango, musica e danza emersa dal coacervo sonoro di uno dei maggiori porti dell’America Latina, ma anche il fado o la meno nota morna delle isole di Capo Verde, i cui testi e sonorità restituiscono spesso atmosfere di distacchi e nostalgie, così radicati nei vissuti degli abitanti delle città portuali (e degli isolani).

L’ibridismo culturale proprio dello spazio di apertura dei porti si riflette anche nei linguaggi gergali specialistici degli scaricatori di porto (ad esempio, i camalli di Genova usavano termini derivati dall’arabo) e in veri e propri argot come il lunfardo di Buenos Aires, che associa un procedimento crittografico di inversione delle sillabe (“gotan” per tango) con l’uso di un lessico derivato dalle varie lingue e dialetti parlati dagli immigrati in città [3].

L’apertura, di cui la musica e la lingua sono espressione [4], si è trasformata non solo in un grado elevato di ciò che oggi definiremmo (impropriamente) “tolleranza” interetnica, ma anche in un autentico accoglimento della diversità nel seno delle comunità insediate a ridosso dei porti, che agiva pure nei confronti di figure socialmente marginali come prostitute, vagabondi e metechi vari. Un’atmosfera, colta magistralmente negli scatti che Sergio Larraín ha dedicato a Valparaíso, spesso scomparsa e sostituita dalla gentrification post-portuale di molti waterfront e dall’allontanamento dei nuovi terminal dal tessuto urbano.

01_Sergio Larrain_valparaiso_

 Sergio Larraín, Valparaíso, 1963. 

La cerniera del porto, tuttavia, può anche veicolare un’accezione negativa di apertura. Il porto, in questo senso, è stato la breccia per attività illecite come prostituzione (e sfruttamento della prostituzione), gioco d’azzardo, furto, contrabbando, ricettazione, con l’inevitabile corollario di violenze e soprusi. Negli angiporti e nei quartieri portuali – anche questo è un motivo letterario – prosperava una malavita spesso rappresentata come rumorosa, collerica e sudicia.

Ma non si creda che nei più asettici e silenziosi terminal portuali contemporanei, containerizzati, integrati e automatizzati, questo accezione di apertura non abbia più corso. Roberto Saviano ha definito il porto di Napoli come “una larga ferita” da cui transitano – spesso illegalmente – merci e corpi di essere umani trattati alla stregua di merci; e ancora, il porto per Saviano è “il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina” (Saviano, 2006, p.12). Parole che alludono all’immagine cruda dell’anus mundi.

Che il porto venga simbolizzato come un ano, come una vagina o come una bocca (i varchi nel cordone litoraneo che mettono in comunicazione la laguna di Venezia con l’Adriatico sono dette “bocche di porto”; il più noto quartiere portuale di Buenos Aires è la Boca [5]; l’espressione “imboccatura del porto” viene correntemente usata), si tratta sempre di orifizi di comunicazione tra un interno e un esterno. Si tratta, ancora una volta, di metafore di apertura.

Nel caso specifico della portualità insulare, la negatività dell’apertura si declina anche in chiave ecologica. Infatti, a compromettere i fragili equilibri ecosistemici delle isole sono stati spesso (accanto al sovra-sfruttamento antropico, come nel noto caso dell’isola di Pasqua) elementi perturbativi giunti proprio attraverso i porti.

Talvolta si è trattato di specie “utili”, appositamente sbarcate in contesi insulari (che ne erano precedentemente privi) per via delle loro potenzialità economiche o estetiche, e poi trasformatesi in vere e proprie piaghe ecologiche [6].

In altri casi, invece, lo sbarco in porto di specie alloctone è avvenuto in modo non programmato o del tutto inconsapevole: basti pensare ai proverbiali topi da stiva, veicolo privilegiato di trasmissione della peste. Il problema si ripropone oggi, sotto altre spoglie, specie per quanto concerne i piccoli organismi che vengono trasportati di porto in porto insieme con le acque di zavorra delle navi.

Indipendentemente dall’ambivalenza costituiva di ogni apertura, come di ogni “entrare in relazione”, il porto è stato per le isole un elemento assolutamente vitale (e continua ad esserlo, malgrado l’accresciuta importanza degli scali aeroportuali). Nonostante la comune tendenza all’associazione automatica tra insularità e isolamento, le isole fin dall’antichità sono state dei crocevia, realtà transfrontaliere per eccellenza (e per necessità). E i porti sono sempre stati la via d’accesso storica alle isole per genti, merci, parole e notizie provenienti da oltremare.

Il porto è l’espressione della permeabilità delle frontiere insulari, la valvola attraverso la quale passa una parte essenziale delle relazioni con l’esterno: con le altre isole nel caso di connessioni arcipelagiche interinsulari e con il continente (e con i continenti). D’altra parte, gli scali e gli approdi nei porti insulari hanno rappresentato nei secoli un elemento indispensabile per la marineria mercantile, militare ed esplorativa, tanto mediterranea quanto oceanica. I fenici fondarono colonie portuali a Cipro, a Creta, sulle coste siciliane e sarde e nelle isole Baleari; i viaggi di Cristoforo Colombo alla volta delle Indie Occidentali ebbero nelle isole Canarie una testa di ponte essenziale.

I porti sono così vitali per le isole che alcune di esse hanno finito quasi con il coincidere, concretamente e simbolicamente, con il proprio porto: spazio del porto, spazio urbano e spazio insulare tendono allora a sovrapporsi, come avviene a Malta, dando vita a una vera e propria “isola-città-porto”. Analogamente, è stato affermato che “per quanto riguarda le isole, sia difficile parlare di waterfront. In verità, non credo che qui ci sia un waterfront, oppure è l’isola intera ad esserlo” (Palerm, 2004, p. 89).

Il ruolo simbolico e funzionale dello spazio del porto insulare è, in particolare, enfatizzato nelle isole molto piccole, dove esso assume “le funzioni di spazio pubblico per eccellenza, di passeggiata e di plateatico, di piazza e mercato, di concentrazione delle funzioni più disparate, terziarie, commerciali, ricettive, ma anche residenziali e ludiche” e dove “tutto concorre a fare del porto la massima ed esclusiva polarità dell’isola” (Savino, 2012, p. 49). E, non di rado, prosegue l’autore, il porto è anche il luogo delle maggiori testimonianze storico-architettoniche dell’isola (antiche peschiere, fari, fortificazioni difensive), stratificatesi nei secoli.

Una recente rassegna sui porti delle isole fa emergere un ulteriore elemento: se la riqualificazione dei waterfront è cruciale per molti porti, quelli insulari (spesso medi o piccoli) ben di rado possono competere sullo stesso piano delle grandi realtà portuali continentali con i loro fronte mare metropolitani “firmati” dalle archistar; ecco allora che “l’insularità diventa il paradigma fondante delle strategie di riqualificazione e sviluppo, con le sue specificità naturali e storico culturali” (De Luca e Lingua, 2012, p.10). Del resto, è lo stesso “cambiamento della natura dei porti […] a poter rendere molto più «aperto» rispetto al passato il ventaglio degli esiti possibili dello sviluppo portuale” (Soriani, 2002, p. 59).

La sfida sta dunque nel reinterpretare l’apertura in chiave contemporanea e sostenibile [7], con una visione strategica che sappia compiere, caso per caso, delle scelte di campo. Cosa che, per i porti insulari, specie mediterranei, significa affrontare anche il nodo problematico delle funzioni turistiche: i traghetti (al servizio del turista o della popolazione locale?), la nautica da diporto (a vela o a motore? Con navigli tradizionali o imbarcazioni moderne?), la crocieristica (sono compatibili grandi navi e piccole isole?).

Si tratta, insomma, di rileggere la vocazione all’apertura dei porti delle isole senza snaturare la îleité (Moles, 1982), l’essenza del luogo insulare.

Dalla proverbiale chiusura delle isole (stereotipo spesso poco rispondente alla realtà) siamo così giunti al motivo (altrettanto ricorrente e non libero da cliché) dell’apertura dei porti che smussa la chiusura insulare. Eppure, proprio nell’ambito dei porti insulari, nel seno di questo spazio di apertura per eccellenza possiamo trovare enclave di estrema chiusura. Come in un gioco di scatole cinesi, l’isola (“chiusa”) ospita un porto (“aperto”), che a sua volta racchiude una piccola isola (di nuovo – e questa volta al massimo grado – “chiusa”) destinata ad essere il luogo della prigionia, dell’isolamento forzato, della segregazione. Nel mezzo dei flussi di merci e persone che transitano “liberamente” dal porto, si interpongono luoghi di negazione della libertà: carceri insulari, lazzaretti, centri di confinamento temporaneo per migranti. Si tratta di una specifica variazione sul tema dell’isola prigione (Fougère, 2002).

Basti ricordare che nell’Upper New York Bay, cuore del complesso sistema portuale di New York e New Jersey di cui l’isola di Manhattan è il baricentro strategico, sorge Ellis Island che, tra il 1892 e il 1924, ha funzionato come centro di smistamento e selezione degli aspiranti immigrati negli Stati Uniti (nonché da base per l’espulsione di cittadini indesiderati) [8]. 

 

Ellis Island_00Ellis Island, dove gli aspiranti all’immigrazione negli USA venivano condotti direttamente dalle navi con appositi ferry (Collections of the Library of Congress, s.d.). 
Ellis Island, where the willing to immigrate to the USA where taken by ferry directly from the ships (Collections of the Library of Congress, undated).

Un altro efficace esempio è l’Isla del Lazareto del porto di Mahón a Minorca, la più orientale delle isole Baleari, nonché l’estrema punta orientale dell’intero territorio spagnolo. Proprio questa localizzazione strategica è stata una delle motivazioni che, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, hanno indotto la corona di Spagna a realizzare qui un punto di controllo sanitario per equipaggi e merci che avrebbe funzionato fino al 1916. Si tratta di uno dei numerosi esempi europei di lazzaretti insulari (tra cui quello vanvitelliano di Ancona, così come il Lazzaretto Vecchio e il Lazzaretto Nuovo nella Laguna di Venezia) con la peculiarità, condivisa con il lazzaretto corfiota, di essere localizzato nello spazio marittimo-portuale di un’isola [9].

A sancire la chiusura, l’Isla del Lazareto, situata all’imboccatura settentrionale della profonda insenatura naturale del porto minorchino, è stata ottenuta artificialmente, separando la parte terminale della piccola penisola di Sant Felipet, e fortificata con una muraglia di cinta alta sette metri.

 

 OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Il portale d’accesso all’Isla del Lazareto del porto di Mahón (Minorca) (foto dell’autrice, 2012). 
The entrance door to the Lazareto island in the port of Mahón (Menorca) (picture by the author, 2012)   
 

La finalità di preservare la popolazione insulare dalle epidemie, la razionalizzazione interna (con suddivisione in recinti indipendenti destinati rispettivamente ai casi sospetti, agli entrati in contatto con malati e agli “appestati” veri e propri [10]) e l’applicazione di misure di trattamento e profilassi avanzate per l’epoca (Vidal Hernández, 2002), non devono far dimenticare che si è trattato di un luogo di isolamento forzato, di reclusione e, per alcuni, di morte.

Tra le attrezzature dell’isola colpisce in particolare [11] una cappella dalla struttura circolare panottica, dove il sacerdote celebrava “sotto vetro”, in un’apposita edicola centrale, mentre gli uomini in quarantena erano confinati dietro grate di contenimento poste a distanza di sicurezza. Difficile immaginare una più netta apoteosi della chiusura.   

 

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa cappella panottica all’interno della fortezza sanitaria del lazzaretto minorchino. (Fotografia dell’autrice, 2012) 
The panoptic chapel inside the sanitary fortress of the menorcan lazareto (picture by the author, 2012).    
 
 
OLYMPUS DIGITAL CAMERACappella del lazzaretto: la “visione” del sacerdote celebrante. (Fotografia dell’autrice, 2012) 
Chapel of the lazareto: the “vision” of the celebrating priest (picture by the author, 2012).

OLYMPUS DIGITAL CAMERACappella del Lazzaretto: la “visione” del segregato in quarantena. (Fotografia dell’autrice, 2012)
Chapel of the lazareto: the “vision” of the segregated in quarantine (picture by the author, 2012).   

La relazione tra insularità e portualità riproduce quindi una complessa dialettica, fattuale e simbolica, tra chiusura e apertura, tra relazioni geografiche e isolamento. Storicamente, le isole, spesso considerate chiuse e ripiegate su se stesse, avevano nei porti il più potente elemento di apertura al mondo; ma i porti insulari, a loro volta, hanno ospitano luoghi di assoluta reclusione. 

Una volta di più, non stiamo parlando solo del passato: le tragiche vicende che interessano l’isola di Lampedusa e il miraggio che il suo piccolo porto rappresenta per molti, continuano a interrogarci in merito ai concetti di apertura/chiusura, di libertà/privazione della libertà (come è noto, l’isola ospita un Centro di Identificazione ed Espulsione) e di circolazione marittima delle merci e delle persone. 

 


Notes

[1] In realtà si tratta di una stereotipizzazione impropria, dato che non esiste un nesso di tipo causale tra insularità e isolamento. L’insularità al contrario può assumere coloriture diverse proprio in ragione delle combinazioni geo-storiche di apertura e chiusura.

[2] Pianigiani, O. 1907, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana

(https://www.etimo.it/?term=porto).

[3] Del resto, l’aggettivo comunemente utilizzato per definire qualcosa che riguarda la città non è bonaerense ma porteño (letteralmente “del porto”).

[4] Un altro esempio di ibridazione culturale è la cucina delle località portuali, che fonde preparazioni e ingredienti di diversa origine: emblematici, in tal senso, sono il cous cous di pesce di Mazara del Vallo nel Trapanese, porto che vanta una delle maggiori flotte pescherecce d’Italia in buona parte gestita dalla locale comunità tunisina, o il caldillo de congrio, piatto simbolo della città-porto di Valparaíso celebrato da Pablo Neruda, dove il grongo del Pacifico viene cucinato in un brodetto di ascendenza mediterranea ma con l’aggiunta del coriandolo, quasi sconosciuto alla cucina europea.

[5] Ovvero “la Bocca”; la spiegazione del toponimo risiede nel fatto che il quartiere si sviluppa in corrispondenza del punto dove il Riachuelo sbocca nel Rio de la Plata, ma secondo alcuni è anche un omaggio al quartiere genovese di Boccadasse (data la provenienza maggioritaria della popolazione locale).

[6] Le capre, ad esempio, hanno impoverito fino allo stremo la vegetazione di non poche isole e isolotti. Tutto ciò perché questi coriacei animali costituivano una possibilità di sfruttamento anche dove non sussistevano le condizioni minime per la vita umana. Talvolta coppie di capre venivano appositamente abbandonate sugli isolotti più sperduti affinché, riproducendosi, garantissero una riserva proteica a lungo termine, utilizzabile in caso di naufragio o di prolungate soste forzate. Non è un caso che i toponimi insulari riferibili a questi animali siano ricorrenti: Caprera, Cabrera, Capraia, Aegusa (antico nome di Favignana) ecc.

[7] Anche a questo proposito, l’insularità può trasformarsi in un vantaggio come nel caso delle green islands: isole “a impatto zero” in relazione alle emissoni di CO2 (come la danese Samsø o l’Isola di Wight), isole autosufficienti energeticamente – o quasi – grazie alle fonti rinnovabili (la scozzese Eigg, El Hierro nelle Canarie, Gozo nelle isole maltesi, Capraia, nell’arcipelago toscano) (Staniscia, 2012).

[8] Non sono molto diverse le dinamiche localizzative che caratterizzano l’isola penitenziario di Alcatraz nella baia di San Francisco, appena più a nord dell’area dei moli dell’Embarcadero, il terminal dei ferry oggi animato da negozi, ristoranti, musei interattivi e mercati. Ed è significativo che tanto Ellis Island quanto Alcatraz Island, che hanno rappresentato “la faccia triste dell’America” (Maffi, 2012, p. 103), siano oggi dei musei/memoriali, passati attraversi un processo di inclusione nell’heritage nazionale e di “messa in scena” spettacolarizzata.

[9] Per una rassegna sugli altri lazzaretti europei e per informazioni su quello di Mahón

(https://lazaretodemahon.wordpress.com).

[10] In realtà spesso non si trattava di peste bubbonica, ma piuttosto di febbre gialla o tifo.

[11] Dal 2012, in seguito ad alcuni restauri, l’isola è sporadicamente accessibile alle visite turistiche. Essa fa parte di un composito patrimonio portuale storico (gestito da molteplici soggetti) insieme con l’Arsenale e l’ex ospedale inglese de l’Isla del Rey (entrambi del XVIII secolo), la fortezza della Mola (ultimata nel XIX secolo), il cimitero inglese (Alemany, 2004), il forte di San Felipe. Il processo di tutela, valorizzazione e accessibilità al pubblico di questo patrimonio è peraltro assai eterogeneo: si va dalla trasformazione della Mola e del forte di San Felipe in vere e proprie attrazioni turistiche al recupero dell’ospedale promosso da un’associazione di cittadini, all’apparente disinteresse per il cimitero inglese, fino all’inaccessibilità dell’arsenale.


References

Alemany, J. 2004, “Puerto Mahón. Uno sviluppo sostenibile per un porto storico”, in Bruttomesso, R. (a cura di), op. cit., pp. 128-133.

Bruttomesso, R. (a cura di) 2004, I waterfront delle isole. Atti del primo incontro internazionale, Olbia 3-5/04/2003, Centro Internazionale città d’Acqua, Venezia.

Cavallo, F.L. 2002, “L’insularità tra teoria geografica e archetipo culturale”, Rivista Geografica Italiana, n. 2, pp. 281-313.

Cavallo, F.L. 2013, “Oggetti geografici, soggetti simbolici. Isole e insularità in geografia culturale”, in Paolillo, A. (a cura di) Luoghi ritrovati. Itinerari di geografia umana tra natura e paesaggio, ISTHAR Editrice, Vidor (Treviso), pp. 177-205.

De Luca, G. e Lingua, V. (a cura di) 2012, Arcipelago mediterraneo. Strategie di riqualificazione e sviluppo nelle città-porto delle isole, Alinea, Firenze, pp. 45-57.

Fougère, E. 2002, Île-prison. Bagne et Déportation, L’Harmattan, Paris.

Maffi, M. 2012, “Isole-La faccia triste dell’America”, in Brazzelli, N. (a cura di), Isole. Coordinate geografiche e immaginazione letteraria, Mimesis, Milano, pp. 103-108.   

Mallart, L. 1997, “Micro-Etats et localisme comme expression d’internationalité: la démytification de l’insularité comme modèle d’isolement”, in Sanguin, A.L. (ed.), Vivre dans une île. Une géopolitique des insularités, Paris, L’Harmattan, pp. 95-101.

Moles, A. 1982, “Nissologie ou science des îles”, L’Espace Géographique, n.4, pp. 281-289.

Palerm, J.M. 2004, “Architettura e paesaggio: le isole”, in Bruttomesso, R. (a cura di), op. cit., pp. 89-97.

Saviano, R. 2006, Gomorra, Mondadori, Milano.

Savino, M. 2012, “Per un approdo strategico. La riqualificazione dei waterfront nelle piccole isole”, in De Luca, G. e Lingua, V. (a cura di), op. cit., pp. 45-57.

Scaramellini, G. 2012, “Isole, insularità, isolamento nella costruzione della geografia contemporanea”, in Brazzelli, N. (a cura di), op. cit., pp.13-32.

Soriani, S. (a cura di) 2002, Porti, città e territorio costiero: le dinamiche della sostenibilità, Il Mulino, Bologna.

Staniscia, S. 2012, “Island-ness”, in De Luca, G. e Lingua, V. (a cura di) 2012, op. cit., pp. 19-25.

Vidal Hernández, J.M. 2002, El lazareto de Mahón, una fortaleza sanitaria, Institut Menorquì d’Estudis, Mahón.


Head Image:
Ellis Island, dove gli aspiranti all’immigrazione negli USA venivano condotti direttamente dalle navi con appositi ferry (Collections of the Library of Congress, s.d.).
Ellis Island, where the willing to immigrate to the USA where taken by ferry directly from the ships (Collections of the Library of Congress, undated).


Article reference for citation:
Cavallo Federica Letizia, “Insularità e portualità come dialettica spaziale tra apertura e chiusura”, PORTUS: the online magazine of RETE, n.26, November 2013, Year XIII, Venice, RETE Publisher, ISSN 2282-5789 URL: https://www.portusonline.org/insularita-e-portualita-come-dialettica-spaziale-tra-apertura-e-chiusura/

error: Content is protected !!